6° giorno di Decimese,
Anno Santo 1533
“Burt
lo Spaccafossi è un diavolo d’uomo” disse il fabbro. “Alto due metri come
minimo. E largo, anche. Due spalle che tiravano dei pugni come magli. Bravo a
picchiare, bravo a scopare, bravo a fare entrambe le cose insieme. C’è un
motivo se lo chiamavano così.”
“Disgustoso”
disse tra i denti Vitja.
“Un
tempo era mio amico” continuò l’altro, occhieggiando tetro verso Salzus. “Ma gli piacevano
troppo le ragazze sbagliate. Anche troppo giovani. Come la figlia del sindaco.
Rubò un’arma e fuggì nei boschi. C’è chi dice che vada a commettere atti contro
natura alla Pietà, e io non so più cosa pensare.”
Vitja
non era solo disgustato dall’uomo su cui pendeva una taglia di cento corone, ma
anche del suo datore di lavoro, che aveva smesso di essergli amico solo perché
sceglieva le ragazze sbagliate da violentare, e non perché le violentasse. Si
sentì fremere le mani ancora una volta, ma si trattenne.
“Beh, i
frati chiedono ferri di cavallo, l’Inquisizione chiede armi proibite, e io non
ho tempo per nessuno. Se vuoi andare a riscuotere la taglia o chiedere di più,
straniero, vai in Via Bach, al municipio.”
“E dove
sarebbe questa Via Bach?”
“Lascia
stare, ti accompagno io” disse Vitja buttando da parte il grembiule. “Faccio
pausa per poco, poi torno ad aiutarti.”
“Come
se avessimo spazio per le pause” borbottò il fabbro, ma li lasciò andare.
Salzus
si voltò un’ultima volta, facendo un cenno col cappello.
“Tornerò
anch’io” disse. “Ho interesse a vedere le vostre altre merci, specialmente le
munizioni, e avrò bisogno di materiali per fabbricare le mie armi… al loro
giusto prezzo, ovviamente.”
"Se puoi aiutare, straniero, allora potrei
anche decidere di farti mettere mano alla fucina con Vitja. Anche lui sa come
metterci mano. Con voi due dovrei essere in grado di costruire in fretta
quell'affare. Se poi volete costruirne altri per voi folli, alla malora!
Teneteveli pure e portateveli lontano il più in fretta possibile."
“Me ne accollerò i rischi” disse Salzus. Un
altro cenno di riverenza col cappello, ed era fuori, in strada, al seguito di
Vitja.
“Allora, garzone?” lo canzonò dopo appena venti
metri. “Che fai di bello in questa città?”
“Sono nato e aspetto di morire, si spera il più
tardi possibile” rispose lui. “Nel frattempo, cerco di imparare quanto più
posso.”
“Uno studioso, eh?” Salzus non prestava davvero
attenzione a quello che diceva. I suoi occhi erano già puntati sulla strada,
sulle persone, alle finestre, alla polvere sugli stivali e alle borse alle
cinture. “E perché non te ne sei andato in un monastero, come tutti, a studiare
in biblioteca?”
“Non sono il tipo da voti monastici” tagliò
corto Vitja. Dentro di sé, il giovane avrebbe voluto chiedergli delle armi da
fuoco e di come le usava lui, ma dirlo per strada era cercare apertamente guai.
L’altro alzò le spalle. “Beh, fa niente. Che ne
sai di fucili?”
Vitja lo guardò con l’aria sconvolta di chi non
riesce a capacitarsi della manifesta stupidità altrui. Salzus lo guardò senza
troppo pudore. “Per strada nessuno presta attenzione a chi gli passa affianco,
tranquillo.”
“Non se sei in una città piccola, e Gunsmuld non
è esattamente immensa.”
Il mercenario alzò le mani in segno di scusa.
“Va bene, va bene, ne riparleremo con
più calma.”
“Farai meglio” disse Vitja acido, “Anche perché
sembra che ci sia movimento al municipio, e vestono quasi tutti abiti sacri.
Non strafare, vorrei evitare di farmi arrestare appena arrivato.”
Il municipio era una grande casa dagli angoli in
pietra, e probabilmente aveva visto tempi migliori. Era circondata da un
piccolo cortile delimitato da mattoni grigi e le poche piante erano lasciate
alle cure del vento e della pioggia. Il portone principale era aperto, ma molti
uomini bloccavano l’ingresso vociando preghiere e discussioni in merito alla
loro presenza al villaggio. Diversi indossavano un saio color cenere con una
stola rossa, altri invece una tunica rossa con stola nera. Alcuni uomini, con
una mantella nera sopra i vestiti da garzoni o la corazza di cuoio, con le
redini dei cavalli dei chierici fra le mani e l’espressione di chi vorrebbe
essere altrove e addormentato, si allontanavano verso le stalle sul retro.
Salzus avanzò senza neppure aspettare Vitja, il
quale si risparmiò la figuraccia che il mercenario fece provando a passare alle
spalle di un vecchio scriba picchiettandogli sulla spalla.
“Indietro, sudicio viandante!” esclamò il
drappello di chierici, indignato dall’atteggiamento impertinente del nuovo
arrivato. Salzus avanzò ugualmente, fendendo la folla. Vitja lo seguì a testa
bassa. Ad un certo punto osò chiedere se potessero indicargli l’ufficio di
riscossione taglie, ma ricevette solo burberi ammonimenti.
In realtà Vitja non credeva assolutamente in
Eos, non ci credeva con tutta la sua forza, ma sapeva che finché abitava in un
paese dove era religione di stato, c’erano diverse regole di convivenza da
seguire. Una fra tutte, il rispetto dell’autorità, che Salzus sembrava aver
cancellato a schioppettate dal vocabolario insieme alla parola ‘discrezione’.
Intanto Salzus, penetrato nell’anticamera,
anch’essa piena, si era ritrovato faccia a faccia con un vecchio scriba deciso
a non levarsi.
“Fuori dai piedi!” sbraitava. “La Chiesa ha la
precedenza. Sappiate rispettare il vostro posto, indigeni!”
Una mano ingioiellata cadde dolcemente sul petto
del vecchio, spingendolo con decisione di lato, mentre due occhi più decisi
guardavano Salzus negli occhi. Peccato che quelli del mercenario si fossero
fermati all’altezza del petto, dove una stola di seta nera, impreziosita da
piccole gocce rosse scintillanti, pendeva dal collo del prevosto.
“Non badate al vecchio Hans” disse l’uomo. “A
volte non sa quel che dice. Ma non indugiate oltre, il sindaco è a colloquio
con il nostro signore, l’Inquisitore Angkar Trevenbaum. Non sappiamo quali
affari portino qui il nostro superiore, ma in quanto parte del suo seguito
inquisitoriale, dobbiamo seguirlo. Attendete fuori, vi prego.”
“Sono qui per occuparmi della taglia su
Spaccafossi” disse fermo Salzus, “E non me ne andrò senza aver ricevuto
informazioni.”
“Sono sicuro che all’ufficio dello sceriffo
troverete chi possa aiutarvi” disse serafico il prevosto. Salzus incontrò
finalmente il suo sguardo: era quello di un uomo in apparenza cortese, ma
probabilmente lo disprezzava ancor più di quanto non facesse Hans stesso. Annuì
e fece dietrofront, lottando contro la marea di preti e monaci che aveva
oltrepassato all’ingresso, non perdendosi a notare gli arazzi ammuffiti,
probabilmente comprati ad un mercato povero per cercare di dare un tono
all’ambiente ufficiale e degradante della città.
Vitja, seccato, cercò di fare dietrofront
scacciando i monaci con un lieve gesto e raggiunse Salzus nel giardino, dove
questi sembrava aspettare proprio lui.
“L’ufficio dello sceriffo?” chiese poco dopo.
“L’ufficio dello sceriffo.”
Vitja sospirò. “Di qua,” disse.
Ad appena cinquanta metri dal municipio, di
nuovo sulla via principale, faceva capolino sulla destra una costruzione bassa,
molto più spartana, e sicuramente più solida. Una veranda di fronte
all’edificio recava una rastrelliera, e un paio di travi di legno come
copertura. Una guardia armata di balestra, seduta in veranda, accennò ad
alzarsi, ma Salzus lo fermò con un cenno, bofonchiando “Sono qui per la
taglia”, al che la sonnecchiosa sentinella si riassestò al proprio posto.
All’interno un uomo dai folti baffi a manubrio,
con un’uniforme leggera e una spada al fianco, sedeva dietro una scrivania.
Un’altra guardia ciondolava nei pressi di una porta sul retro, mentre da un
corridoio a destra arrivavano le flebili lamentele dei prigionieri.
Il mercenario si diresse verso l’uomo seduto
dietro il tavolo, che gli riservò un’occhiata lunga e penetrante, e chiese
della taglia. L’uomo, senza dire una parola, gli porse uno dei volantini che
Salzus aveva già notato in giro per la città. Sul foglio, stampato su carta di
pessima qualità, era rappresentato un uomo dal collo taurino, la faccia larga,
la barba sfatta, delle cicatrici sugli zigomi, la fronte corrucciata coperta da
pochi ciuffi di capelli spioventi.
Lo prese, lo guardò, quindi riportò lo sguardo
sullo sceriffo.
“Credete di essere in grado di catturare lo
Spaccafossi, stranieri?” chiese senza mezzi termini. “Non ci servono
perdigiorno o cadaveri. Potete riportarlo indietro?”
“Non so quanto tempo potrei…” si fermò un attimo
a guardare Vitja, che stava sulla soglia,
poi si corresse: “…potremmo metterci. Potrebbe darci una mappa della
zona, sceriffo?”
“Arrangiatevi” berciò lo sceriffo. La guardia
vicino alla porta sbirciò dentro e si unì alla conversazione. “Siete alle prime
armi, eh? Siete sicuri di quello che state facendo? Andare in giro per la
regione senza un’idea di chi o cosa potreste incontrare?”
“Sono affari nostri” lo zittì Vitja, per poi
dargli le spalle.
“Ne rispondo personalmente io di tutti i
mentecatti che decidono di ammazzarsi per soldi facili, quindi è decisamente un
mio problema” lo rimbeccò lo sceriffo.
“Non accadrà” disse Salzus. “Ci dica dove andare
e uccideremo quel tipo.”
“Nutro seri dubbi,” “Quelli che mi preoccupano
sono i fatti. Spero che tu sia più bravo in battaglia di quanto fossero i
cacciatori precedenti, straniero. Non basta una lama e un po’ di fortuna a
buttar giù lo Spaccafossi.”
“Ci tengo alla mia pelle, tranquillo” disse
Salzus. “Allora, questa mappa?”
“Se vi aspettavate di entrare qui e ricevere aiuto nel dimostrare che siete più
bravi di me a fare il mio lavoro, siete capitati male” disse il fremente tutore
dell’ordine.
“Allora perché mettere la taglia a disposizione
dei cittadini?” chiese Vitja, perplesso.
“Ordine del sindaco” bofonchiò l’uomo da sotto i
baffi. “A quanto pare, neppure Gunsmuld si fida delle forze dell’ordine di
Gunsmuld. Ma le cose cambierann-”
“Questo invece è un ordine mio!” lo interruppe
bruscamente Salzus, sbattendo una mano sul piano da lavoro dello sceriffo,
ottenendo così la sua completa attenzione, più quella delle due guardie in
vista e quella di Vitja, che più di tutti era preoccupato dell’andamento della
discussione. “Mi aspetto che mi fornisca mappe della regione, e che mi faccia
avere dettagli su dove è stato visto per l’ultima volta il fuggitivo. Glielo
ordino, siamo agenti dell’Inquisizione! Non mi costringa a riportare la sua
mancata collaborazione ad Angkar Trevenbaum!”
Vitja strabuzzò gli occhi. Lo sceriffo fece
altrettanto, ma per un attimo i suoi baffi fremettero. Guardò ancora una volta
l’uomo che aveva davanti, lo squadrò da capo a piedi, quindi guardò Vitja che
aspettava, teso, sulla soglia. Poi un angolo della sua bocca si stirò in quello
che voleva essere un crudele accenno di sorriso ma che risultò più come una
smorfia di seccatura.
“Chi vuoi prendere in giro?” disse in tono
gelido. Vitja iniziò a fare un paio di passi verso l’esterno, intuendo cosa
stava per succedere. “Due uomini dell’Inquisitore Trevenbaum sono passati oggi
per chiedere informazioni e supporto. Loro avevano delle insegne
dell’Inquisizione e non puzzavano di strada, al contrario di voi due! State
cercando di approfittarvi dell’organo più sacro di Eosmeria per il vostro
tornaconto, e spacciarsi per agente della Sacra Inquisizione…”
È eresia, completò dentro di sé
Vitja, cercando di mettere della distanza fra sé e quello sciocco straniero.
Forse, con un po’ di fortuna, avrebbero arrestato solo lui…
“… è eresia. Guardie! Prendete questi due
pezzenti e sbatteteli in cella! Ci penserà l’Inquisizione a loro.”
Oggi, evidentemente, non era la sua giornata
fortunata.
“Cosa diavolo dici, idiota! Non usare il plurale
così facilmente, ti conosco appena!” provò a sbraitare in direzione di Salzus,
ma questi, alzando le spalle come per dire beh,
almeno ci ho provato, scattò a sorpresa, oltrepassando in un baleno la
guardia che aveva appena fatto un passo nella sua direzione, alzando la balestra
troppo tardi per intercettarlo. L’altra guardia annaspava in direzione di due
grossi ceppi e Vitja gridò nuovamente, stavolta in direzione delle guardie: “Io
sono venuto qui ad accompagnare quest’uomo, per lavorare e fare il mio dovere!
Non sono un inquisitore e non ho mai detto d’esserlo!”
“Allora non muoverti, idiota!” disse la guardia
coi ceppi in mano. “E tu, resta fermo dove sei!”
“Spiacente!” disse Salzus, facendo ancora una
volta il suo beffardo cenno di saluto col cappello. “Quanto a te, compagno
inquisitore” disse sottovoce a Vitja, “se sopravvivi, ci vediamo alla Pietà!”
Vitja era paralizzato, bloccato sul posto e
ancora stupefatto, fra l’assurda idiozia di quel furfante scavezzacollo e la
propria stupidità nell’essersi accodato a lui in quella giornata senza senso.
Registrando appena con la coda degli occhi il bugiardo patentato che scappava
alle sue spalle, Vitja guardò la guardia che aveva affianco passare oltre,
all’inseguimento del fuggitivo, lo sceriffo che metteva mano alla spada e
sbraitava ordini agli altri uomini in caserma e la guardia armata di ceppi che
avanzava verso di lui.
La vista dei ceppi lo terrorizzò. Se l’avessero
arrestato, anche liberandosi dell’accusa di cui l’aveva coperto quell’idiota
armato di lasso e fucile, probabilmente sarebbero risaliti al fabbro e alle
armi da fuoco. Il fabbro non se la sarebbe cavata comunque (dubitava che
l’Inquisizione avrebbe confermato lo scottante incarico assegnato al
pover’uomo) ma con ogni probabilità avrebbe cercato di porre distanza fra sé e
Vitja accusandolo di avere armi da fuoco prima ancora di essere giunto in
officina.
E poi gli tornò in mente il rogo, l’esplosione,
le voci, il processo sommario. Ricordò padron Mikhail e i ceppi che aveva ai
polsi, così simili a quelli che stavano arrivando per i suoi.
Si riscosse.
Tanto
prima o poi mi avrebbero scoperto, o me ne sarei andato lo stesso, disse a sé stesso. Quell’idiota ha solo accelerato le cose.
“Non ho fatto niente di male, non mi farò
arrestare o torturare dall’Inquisizione per nulla!” sbottò spintonando la
guardia che inseguiva Salzus e scappando in strada. L’uomo armato di balestra
inciampò e rotolò giù per i pochi gradini della veranda, ma Vitja era di nuovo
in strada. Decidendo che tornare direttamente alla forgia era stupido tanto
quanto seguire il mercenario dalla lingua lunga, decise di imboccare una viuzza
poco più avanti e seminare le guardie. Sentì ancora una volta il grido dello
sceriffo che chiamava a raccolta uomini, e quando era ormai fuori dal loro
campo visivo udì risuonare la campanella dell’allarme. Corse più forte, più in fretta,
fino a farsi bruciare i polmoni: non sapeva se gli fossero già alle calcagna,
ma non aveva tempo di girarsi a controllare.
Girò in un’altra via, e in un’altra, e poi in
un’altra ancora. Girò un angolo e finalmente si fermò un attimo a riprendere
fiato e a guardarsi intorno. Per buona misura, alzò il cappuccio del mantello,
anche se il tempo non preannunciava pioggia e nonostante qualche umida nuvola
di foschia nel cielo pomeridiano c’era ancora un timido sole.
Fece in tempo a girarsi e notò un paio di
soldati di pattuglia che guardavano in giro, allertati dalla campana. Uno di
loro lo notò, e sebbene non l’avesse riconosciuto, alle spalle di Vitja stavano
sopraggiungendo i primi inseguitori. Fecero due più due ed avanzarono a passo
svelto, le armi alzate, ma Vitja scattò di lato e percorse frettolosamente il
vicolo cieco fino al muro che, a giudicare dal rumore dall’altro lato, lo
separava dall’affollata strada principale. Senza curarsi del pericolo alle sue
spalle, saltò su un barile nei pressi e spiccò un balzo a braccia tese,
afferrando il bordo del muro. Sbatté con tutto il corpo contro la parete del
muro, ma ignorò il dolore e si issò su mentre i due uomini alle sue spalle, più
pesanti e meno agili di lui, rovesciavano goffamente il barile nel fallimentare
tentativo di imitarlo. Si ritrovò in cima al muro, a sbirciare sul vicolo che
riportava sulla strada principale, più a nord rispetto al municipio. L’altezza
era non poca, e anche appendendosi prima di lasciarsi cadere, a Vitja scappò
un’imprecazione di dolore all’atterraggio.
Si rialzò in fretta e si diresse verso la via
principale. In quel momento c’erano meno persone del solito, ma bastavano
perché si confondesse fra loro.
O almeno così pensava. Si voltò un attimo verso
destra, e vide un paio di alabarde svettare al di sopra delle teste dei
paesani. Pochi secondi dopo Vitja riconobbe chi le impugnava: soldati con un
giustacuore rosso sopra la corazza di cuoio. Non guardie cittadine, ma sgherri
dell’Inquisizione. Al loro fianco stava accorrendo una delle guardie che
inseguivano Vitja. Non avevano ancora scorto né lui né il suo mantello, ma
evidentemente cercavano lui.
Lo sceriffo ha pensato di chiamare anche qualche
soldato al soldo dell’inquisitore per essere sicuro di battere a tappeto le
strade, pensò. Si volse, cappuccio teso sul capo, e proseguì facendo finta di
niente. Alcuni rumori concitati lo indussero a girarsi nuovamente, e vide i
soldati più vicini. Si rese conto che stavolta si erano accorti di lui in mezzo
alla folla e ora cercavano di raggiungerlo spintonando i paesani ignari che si
trovavano fra lui e loro.
Iniziò a guardarsi intorno, disperato e
frenetico. Cosa poteva fare per rallentarli?
C’erano diverse bancarelle, ma creare confusione
fra di esse poteva rallentarlo a sua volta e probabilmente lo avrebbero preso
lo stesso. Adocchiò un’impalcatura poco stabile vicino ad un edificio in
costruzione, ma abbandonò anche quell’idea: c’erano degli operai lì sopra, e
non poteva metterli a rischio solo per scappare.
La fortuna gli mise davanti un carretto pieno di
zucche. Vitja sorrise, si avvicinò in fretta e, prima che il proprietario se ne
accorgesse, tirò un calcio alla base del palo che teneva alzato il retro del
carro e scartò subito di lato in una viuzza interna. Si lasciò alle spalle un
rombo liquido di zucche che rotolavano in terra e l’unica cosa che lo inseguì
per le vie più desolate fu il grido dei soldati bloccati dalla frana
fruttifera.
Soddisfatto della riuscita del proprio
stratagemma, Vitja si concesse una breve risata mentre correva verso la forgia,
e non potè fare a meno di pensare a quell’idiota di Salzus El Bat, che con
quella sua impertinente spavalderia li aveva cacciati in quel casino, e si
sorprese a domandarsi se quel mercenario scavezzacollo si fosse salvato.
Salzus El Bat era decisamente più nei guai di
quanto volesse dare a vedere. Andare a sinistra era un azzardo, significava
andare più vicino al municipio e a tutti quei servi dell’Inquisizione. Tornare
sui suoi passi era fuori discussione. Andare a destra era noioso e prevedibile,
e non aveva voglia di correre in mezzo alla gente, di schivare paesani e
contadini in una gara di velocità sulla lunga distanza fra vicoli che non
conosceva, una gara che non era sicuro di vincere.
Al contrario, davanti a sé, e sopra, sembrava un’ottima
idea per la sua mente troppo ardita.
Di solito essere arditi era sufficiente a
fregare il prossimo. E poi dubitava che quelle guardie sonnacchiose fossero
abituate alle scorrazzate in cima ai tetti.
Dall’altra parte della strada, vicino alla
veranda della caserma da cui era appena uscito, sostava un carro. La rincorsa
gli bastò per saltare a bordo e da lì saltare e appendersi ad uno dei balconi.
La presa delle sue dita resse, ma non riuscì ad issarsi su in tempo per
schivare uno dei quadrelli delle balestre d’ordinanza delle guardie. Il
proiettile lo colpì di striscio sotto la natica facendo ugualmente un male
porco, ma ebbe il vantaggio di spronare Salzus ad arrampicarsi più velocemente.
Altri due quadrelli saettarono intorno a lui, ma colpirono le finestre vicine,
frantumandole con rumore squillante e causando non poco disagio tutt’intorno.
“Bel lavoro, fessi!” gridò mentre si issava
finalmente sul tetto. Si volse mentre gattonava sulle tegole e vide una guardia
che annaspava nella sua direzione poco sotto di lui. Strappò una tegola dal
tetto con irruenza e la gettò giù, ma la guardia scalatrice dovette intuirlo
per tempo, perché si strinse contro la parete schivando il proiettile
improvvisato. Salzus non restò insoddisfatto, però, perché udì comunque un urto
sordo, come contro un elmetto, e un insulto colorito da parte di una seconda
guardia, poco sotto della prima, che aveva iniziato la scalata al seguito della
prima ma che era stata meno accorta.
Non sentendosi troppo in colpa per quello che
aveva appena fatto, fece scivolare un piede verso il basso senza troppa
galanteria e colpì sul volto la prima guardia. Il colpo fece vacillare ed
infine crollare l’uomo, che rovinò dolorosamente addosso al secondo. Salzus
rise, si accorse di altri quadrelli che gli sibilavano intorno, quindi si
affrettò a guadagnare la cima del tetto alla svelta e a scomparire oltre il
bordo, dall’altro lato.
Percorse qualche metro in diagonale sull’altro
lato prima di scendere in un cortile posteriore che faceva al caso suo.
Circondato da una piccola staccionata, il cortile conteneva un capannino per
gli attrezzi di dimensioni esigue – giusto quel che serviva per nascondere una
persona. Più abituato di Vitja, si lasciò cadere e, come un gatto, atterrò in
relativo silenzio. Il piano era nascondersi nel capanno, aspettare che le
guardie arrivassero sul tetto, guardassero in giro e deducessero che avevano
perso il fuggitivo. Avrebbero certamente continuato a cercarlo, ma se lo
sarebbero fatto scappare e lui avrebbe approfittato dell’occasione per allontanarsi
dalla città. E, già che c’era, mentre era nel capannino poteva vedere se c’era
qualcosa di valore da rubare.
“Signore, lei è un ladro?”
Stava già frugando nel capanno per vedere se
oltre all’ovvia utilità pratica il nascondiglio celava oggetti utili o di
valore da poter rubacchiare, ma la vocina lo portò a girarsi: davanti a lui c’era
un bambino dall’aria curiosa e dai capelli rossi.
“Come mai ti interessi di ladri? Un ometto della
tua età non dovrebbe pensare a queste cose.” Come niente fosse, continuò a
frugare fra gli attrezzi del capanno. Scappare all’improvviso avrebbe fatto
gridare il bambino, e gli avrebbe fatto saltare la copertura.
Il bambino restò interdetto, a guardare il
misterioso adulto che era comparso nel suo cortile. Salzus lo guardò un
secondo, poi fece la faccia più simpatica che poté e alzò le spalle. Dopo un po’,
il bambino trotterellò via placido, e Salzus tirò un sospiro di sollievo.
Constatando che non c’era nulla di utile a parte un po’ di corda e di chiodi,
si infilò nel capanno e chiuse la porta dietro di sé.
“Mamma, c’è un signore strano nel capanno” gli
arrivò ad un tratto la voce del bimbo da dentro la casa. “Se è Papa Genus posso
avere i miei doni in anticipo?”
“Maledetto marmocchio” bofonchiò Salzus uscendo
in fretta e furia dal suo nascondiglio compromesso.
Da dentro si udì un concitare di voci, tra cui
una squillante e ansiosa voce femminile. Alzò lo sguardo, e vide due guardie
fare capolino dal bordo del tetto da lui già varcato.
Lo guardarono. Lui guardò loro.
Loro armeggiarono ricaricando le balestre e
quando rialzarono lo sguardo su di lui lui era già una macchia distante lungo
la via sul retro. Spararono un paio di colpi, ma fu inutile.
Salzus si fermò solo quando fu fuori dal loro
campo visivo, e per buona misura mise altri trecento metri tra sé e il punto
dove aveva smesso di veder guardie. Ansimando, si sedette a terra in un angolo.
Alla fine, si era comunque trattato di una corsa a perdifiato. Non troppo
scoraggiato, ma ancora lievemente irritato, si concesse un minuto di pausa
prima di rimettersi in movimento. Era già fuori dal centro città, per cui era
già sulla buona strada per la Pietà. Fiducioso di poter riscuotere la taglia lo
stesso (usando qualche stratagemma che si sarebbe inventato lungo la via),
Salzus El Bat ripartì alla volta del vecchio avamposto schiavista abbandonato
che sorgeva vicino alle temute fosse, e si domandò se il ragazzo che aveva
incontrato alla forgia fosse riuscito a cavarsela.
Erasmo varcò la soglia della forgia e non fu
sorpreso del sobbalzo del fabbro al vedere la sua figura, ammantata dalle vesti
oracolari. L’uomo tremava ma cercava di nasconderlo, e assai male, tra l’altro.
“Cosa posso fare per vossignori?” provò a dire,
diretto alla figura incappucciata. Erasmo tacque, cercando di ricordare con
esattezza quello che gli era stato ordinato. “Il mio superiore, Sua
Autorevolezza l’Inquisitore Angkar Trevenbaum, richiede che il frutto del
vostro lavoro eretico sia confiscato; acconsentendo a fare ciò, vi sarà
condonata la pena, a patto che dimentichiate questi eventi e il contenuto dei
progetti che vi sono stati inviati.”
“Eh?” chiese il fabbro, terrorizzato.
Erasmo sbuffò. “Vuol dire che dovete consegnarmi
il manufatto che stavate costruendo. La pistola, l’attrezzo eretico. Quella e i
progetti. Datemeli e nessuno verrà a sapere nulla, ve lo garantisco.”
“Voi… voi siete un Oracolo?” mormorò timoroso il
fabbro.
Erasmo sbuffò una seconda volta. Perché i
timorati di Eos non rispondevano mai direttamente alle domande ma rimanevano
immersi nell’adorazione? Da quel punto di vista era persino meglio avere
intorno Obiano e Celtiberi, che anche ritenendolo inquietante, perlomeno erano
sufficientemente dissacratori da non fargli i salamelecchi ogni volta che
aprivano bocca. E per cosa, poi? Per l’abito? Quella era solo stoffa. Era dei
poteri dell’Oracolo che dovevano avere paura, e quelli non li aveva visti quasi
nessuno. Nessuno di ancora vivo, perlomeno. I pochi ancora in vita erano i
membri dell’Inquisizione venuti ad indagare nel suo villaggio dopo quell’orribile
notte di molti anni fa, e si erano limitati a fare delle supposizioni. Da
lontano.
“I piani e la pistola. Per favore.” Rimarcò ulteriormente
il tono sulle ultime due parole con un tono seccato. Il fabbro, maneggiando nervosamente
un martello mentre si avvicinava ad un panno di stoffa posto su un ripiano, guardò
Erasmo, poi i due Soldati Penitenti al suo seguito. Erasmo aveva Obiano e
Celtiberi alle sue spalle, quindi non poteva vedere le loro espressioni, ma a
giudicare da quella del fabbro, dovevano essere stati esplicitamente
minacciosi. Un altro motivo in più per sopportarli con più pazienza fra un
incarico e l’altro.
Finalmente il pover’uomo raggiunse il pezzo di
stoffa, che evidentemente conteneva la pistola, e si avvicinò a porgerla ad
Erasmo, ma Celtiberi avanzò e prese l’oggetto dalle sue mani sudate, sudice e
tremanti.
“N-non è completa…” iniziò a dire, ed Erasmo lo
guardò da sotto il cappuccio, con quella che voleva sembrare perplessità.
Purtroppo, da sotto un cappuccio molte espressioni vengono fraintese, e questo
era uno di quei casi. Il fabbro si ritrasse, tremebondo, ma Erasmo lo fermò con
un cenno della mano, e aggiunse un cenno del capo affinché continuasse. “Vedete,
la vostra… compagnia è venuta anche a commissionarmi una fornitura di ferri di
cavallo, e con così tanti ferri e così poco tempo… il mio nuovo assistente se
ne sarebbe dovuto occupare ma… n-non è qui ora-”
“Un garzone?” disse Erasmo. “Sa dell’arma? Lo
avete messo a parte di progetti per armi da fuoco? Progetti proibiti?”
Il fabbro gemette. “Lui sapeva! Armeggiava con
quegli affari ancora prima di-”
La sua voce si perdette sotto l’improvviso
frastuono di un paio di pentole e di pinze che cadevano fragorosamente le une
sulle altre, e tutta l’attenzione si spostò sulla figura incappucciata che
stava recuperando la sua roba dal cantuccio ove l’aveva posata quando era
arrivato. Il cappuccio dell’uomo si sollevò appena da mostrare un uomo giovane,
asciutto, con un volto spigoloso e una barba corta. Il suo sguardo era un
concentrato d’odio diretto non ad Erasmo o ai suoi sgherri, ma al fabbro.
“Fermo!” esclamò Erasmo, ma la figura fuggì
immediatamente dalla porta sul retro, ed Erasmo trattenne Celtiberi dallo
scappare all’inseguimento. Aveva in mano gli schemi per l’arma eretica e il
prototipo incompleto; era meglio restare dov’era, e dare più tardi la caccia al
fuggitivo.
“Suppongo che fosse il vostro assistente” disse.
“Diteci di più. Subito.”
Il fabbro si torceva le mani con aria affranta, le
parole che uscivano a fiumi. “Ex-assistente, ormai” disse amaramente. “Puzzava
di guai. Tutta questa giornata puzzava di guai.”
“Che significa?”
“Era arrivato stamattina presto, appena dopo la
campana del Mattiniero. Aveva con sé un’arma proibita, una grande, più lunga;
la teneva avvolta in un panno. Ha chiesto di lavorare qui e io ho acconsentito,
e quando ha visto i piani ha intuito di che si trattava, e mi ha detto che
poteva aiutarmi. A quel punto abbiamo messo a punto la maggior parte dell’arma
insieme, quando poi è arrivato quel folle…”
“Chi?”
“Un uomo, un mercenario, forse. Un altro folle
con armi proibite. Oh, per Eos…”
“Chi era quest’uomo? Si conoscevano?”
“Non lo so, credo di no, ma andavano d’accordo,
forse fra eretici ci s’intende! Io non c’entravo niente, mi ha chiesto della
taglia sull’assassino, sapete, dove si nascondesse, e io gli ho detto di andare
al municipio…”
“Come, al municipio?”
“Ma sì, intendevo per chiedere informazioni!
Burt non si nasconderebbe nel posto dove lavora il padre della ragazza che ha
fottuto- oh, perdonatemi, Oracolo, sono desolato”
“Conoscevate il fuggitivo accusato degli omicidi
recenti?”
“Omicidi? Sapevo solo che aveva usato violenza
su-”
“Lo conoscevate?”
“Per amor del cielo, tutti conoscevano Burt
Spaccafossi in città, era un ubriacone locale, era famigerato! Io a quei due ho
detto solo che secondo me si nasconde alla Pietà, ma è solo una voce, per Eos,
perdonatemi…”
“Abbiamo sentito abbastanza” lo interruppe
Erasmo. Si voltò verso i suoi due alleati e carcerieri. “Avete sentito il
fabbro. Abbiamo i piani, abbiamo il manufatto. Consegnamo a Trevenbaum il
tutto, e poi cerchiamo di riagguantare il nostro eretico.”
“Dunque abbiamo due eretici in città, oltre ad
un assassino stupratore che potrebbe essersi macchiato di infami crimini contro
il popolo di Eos” ricapitolò Trevenbaum, fissando l’arma parzialmente disassemblata
poggiata sul suo tavolino. Angkar
Trevenbaum era un uomo brutalmente frugale per gli alloggi, e anche la sua
stanza era stata privata di orpelli nonostante gli fosse stata riservata una
meravigliosa suite in virtù del suo status. Aveva ricevuto Erasmo direttamente
in camera sua, addirittura interrompendo brevemente le sue preghiere per
ricevere l’arma da fuoco e le notizie che l’Oracolo portava con sé.
“Esatto, di cui almeno uno è in fuga” aggiunse
Erasmo.
“Lo sono entrambi” disse Agostino, anch’egli
presente durante il rapido resoconto. “Ho avuto notizia da alcuni dei nostri
soldati che due uomini erano in fuga dalla caserma dopo essersi presentati
esigendo informazioni sul ricercato e spacciandosi per agenti dell’Inquisizione.”
Rise brevemente, sottolineando quanto sciocca quell’idea potesse sembrargli. Lo
sguardo di Trevenbaum lo azzittì immediatamente, seguito dalla rimbeccata sul
fatto che suddetti idioti erano sfuggiti alle forze dell’ordine.
“Beh, tutti gli indizi di eresia e crimine
indicano questa Pietà di cui tutti vanno parlando” concluse Erasmo. “Partiamo
subito, potremmo anche riuscire a coglierli di sorpresa o intercettarli lungo
la strad-”
“Non faremo nulla di tutto ciò” disse Trevenbaum
freddo. “Abbiamo ancora indagini da fare in città. Questi due eretici verranno
raggiunti dal lungo braccio della giustizia di Eos. Ma non ora. Siamo appena
arrivati e mobilitare le forze senza neppure considerare il resto della città è
semplicemente stupido. Dobbiamo mandare dei soldati a difendere le povere suore
di Trieme-Gusch, dobbiamo interrogare e sanzionare questo fabbro per aver
costruito armi eretiche…”
“Ma il fabbro lo ha fatto su suo ordine!” sbottò Erasmo. “Mi era
stato detto di riferire che sarebbe stato perdonato per questo!”
“Hai detto bene, ti è stato ordinato di riferire.”
Erasmo fremeva sotto il mantello oracolare. “Ma…”
“Niente ma, Oracolo Erasmo. Dovresti
preoccuparti solo di fare il tuo dovere e bruciare gli eretici che io ti comando di bruciare. Altrimenti, la prossima volta potresti esserci tu, sul rogo! Sono stato chiaro?”
“Cristallino” rispose gelido Erasmo, ma l’indignazione
furoreggiava ardente appena sotto la pelle, nelle vene, nei muscoli contratti. “Sono
congedato?”
“Sei congedato. Che Eos ti guidi. Ah, un’ultima
cosa” aggiunse, con la gravità di un macigno in ogni sillaba. “Ti ricordo che
al fabbro era stato richiesto di costruire armi eretiche, non anche di ospitare
e collaborare con eretici. È comunque colpevole, e sarà punito per la sua
eresia.”
Erasmo chinò la testa e proseguì, uscendo dalla
camera, ma non rispose. A farlo ci pensò una delle voci nella sua testa, la
voce di sua sorella.
Conosco
qualcuno che invece non sarà punito per ogni colpo che sparerà con quella
pistola,
disse. Erasmo non poteva che essere d’accordo.
Sai cosa
dovresti fare?
disse la voce. Dovresti proprio andare a
fare una visitina alla Pietà e a quei furfanti, da solo!
“Da solo? Oh, no” disse a bassa voce. “Proprio
ora che Obiano e Celtiberi iniziano a starmi simpatici…”
“Dicevi nulla, Oracolo?” chiese Obiano, che
attendeva in corridoio.
Erasmo scosse leggermente la testa. “Stavo solo
pregando per la riuscita della nostra prima missione vera e propria, da soli.
Gioite, andiamo a catturare quegli eretici di cui si parlava prima. Alla Pietà.”
“Missione da soli?” disse Celtiberi, la cui
massima aspirazione era di continuare a fare il facchino per Trevenbaum indossando
un’armatura ufficiale e ricevere vitto e alloggio per il resto dei suoi giorni
con tutto il tempo libero da dedicare ad alcol e donne (quando non doveva
badare ad Erasmo). “Siamo sicuri che sia una buona idea?”
“L’Inquisitore Trevenbaum ci ha dato carta
bianca” mentì Erasmo. “E poi, di cosa avete paura? Qualsiasi cosa incontreremo,
non può essere peggio di me, giusto?”
Obiano rise. Celtiberi un po’ meno, perché aveva
più immaginazione.
“Non so, mi sembra comunque qualcosa di
pericoloso, andare a caccia di eretici da soli” disse. “Non possiamo avere dei
rinforzi?”
“E dire addio alla possibilità di una
promozione? Da Soldati Penitenti a Sergenti effettivi delle truppe della Santa Inquisizione?”
disse Erasmo.
Obiano era posseduto da un improvviso spirito
puritano. “Come l’esercito, ma niente rischi da campo di battaglia! Pensa, Beri,
non dobbiamo neppure prendere i voti!”
Erasmo notò la scintilla negli occhi di
Celtiberi. Era fatta.