5° giorno di Decimese,
Anno Santo 1613
“Con questa opera, dalla
mole importante e dal contenuto non facile e spesso incredibile a credersi,
narrerò delle cause remote e vicine che hanno condotto allo stato di cose
attuali nel nostro stato come nelle altre nazioni sotto il sole. Il nostro
mondo ha sofferto, ed è mio dovere, come cronachista, conservare il ricordo
delle cause complesse di questa sofferenza. Senza il mio apporto, gli uomini
dimenticheranno, come sempre hanno fatto, il perché delle loro disgrazie, e
senza tale comprensione, cadranno più e più volte nei medesimi errori.
Per quanto misera possa
sembrare, la causa degli eventi non ebbe il proprio focolaio nella corte
dell’Arcivescovo di Antrimonia, come molti potrebbero pensare, o presso i
sontuosi palazzi dei Principi Mercanti di Corolla, o nel corrotto Parlamento di
Glideria, dove i magistrati seguono il volere dei signori del crimine che strisciano
nelle ombre. Per quanto io pecchi di presunzione, ipotizzo che, lasciati a loro
stessi, quei tre schieramenti non avrebbero avuto alcun motivo di cambiare la
situazione. Per quanto intessuto di menzogne e di complotti, di segreti e di
inimicizie, quello stato di cose era ordinato affinché continuasse per secoli,
fintanto che le ruote della civiltà venivano unte con il denaro del commercio.
La causa del conflitto, improvviso e terribile, che scoppiò nell’anno 1535, ha
le proprie radici più profonde, eppure immensamente semplici, nella forma di
tre uomini, tre uomini che al giorno d’oggi l’umanità tutta, sia essa
Eosmeriana, Glideriana o Corolliana, ritiene la causa di tutti i mali.
E a ragione, dopotutto.
Questi uomini, chiamati Spitfire nella lingua di Glideria, sono entrati
nell’immaginario collettivo come mostri di inumana ferocia. Persino i subumani
come i reclusivi nani nostri schiavi, o gli orcoidi da tempo sul filo
dell’eresia, ed ora palesemente alleati col nemico, mostrano aperto disprezzo e
scherno della figura dell’Oracolo dell’Olocausto, Erasmo del Sole Nero, e dei
suoi due accoliti sanguinari, il cui amore per il caos ed il disordine li
portarono ad efferate azioni contro i governi di tutta la terra.
Quel che pochi sanno,
poiché la memoria del mondo è assai corta, è che i suoi due alleati principali,
tali Thunderbolts, due eretici che trafficavano da tempo con le armi diaboliche
caricate a polvere alchemica, erano poco più di semplici uomini. Forse,
addirittura poco meno. Ma nondimeno furono loro a causare i mille e più danni
che portarono alla guerra, e alla frammentazione brutale della nostra Santa
Chiesa sotto i colpi degli eretici. Come potrete comprendere leggendo, forse il
trafficare con l’alchimia, ed altre immonde pratiche, portò i tre alle loro
azioni contro la natura, contro lo stato e contro l’unica fede.
La famosa eclisse che
colpì la capitale omonima di Glideria nel 1535, ad esempio, fu chiaramente
opera loro, e dei loro oscuri talenti. Anche atti contro le tribù orcoidi
pagane del nordovest, sebbene portate contro nemici della vera fede, denunciano
la loro crudeltà verso ogni cosa vivente, e del loro disprezzo della pace. È
risaputo anche che poco dopo le loro scorribande nella Terra di Nessuno, le
tribù degli orchi e delle loro progenie impure con gli uomini si spaccarono in
seguito al famoso incidente conosciuto come la Voragine Rossa, di origini
sconosciute ma palesemente collegato ai recenti attacchi demoniaci sulla terra.
Che la proliferazione di creature diaboliche, mai viste prima, risalga a quegli
anni, è un’altra delle cose chiarirò nella mia opera, assieme a molti altri
eventi degni di nota o di carattere politicamente o militarmente importante. Le
prime grandi Armi da Guerra Viventi furono scoperte in quel tempo, infatti, e
nello stesso periodo si verificò anche il famoso Scisma di Gann Brand, che
colpì duramente la nostra chiesa privandola del sacro ordine dei Paladini e
costringendo l’Inquisizione ad assumere un ruolo più fitto e attivo nella
protezione dell’ordine costituito, ruolo che ricopre tuttora.
Nella mia opera ho
cercato in lungo e in largo di trovare le origini di questa piaga in forma
umana, questi tumori della pace di tutti gli uomini buoni. La risposta che ho
trovato è, ahimé, incompleta, perché ogni mia ricerca sui Thunderbolts riporta
solo flebili incertezze per qualsiasi notizia antecedente i fatti criminosi
avvenuti a Gunsmuld nel 1533, mentre di Erasmo Sole Nero, della cui orribile
nascita, infanzia ed adolescenza prima del servizio come Oracolo sono zeppi i
libri dell’Inquisizione, procederò a narrare senza dubbio alcuno. Unica
incognita oltre all’origine di coloro che lo istigarono sulla via del demonio,
è la volontà divina, che diede il fuoco purificatore del sole alle mani di uno
così scellerato oracolo…”
Padre Paolus terminò la
lettura con voce flebile, quasi inudibile, mentre gli altri Reverendi Difensori
ascoltavano in silenzio. Con mani così lente da raccogliere polvere, sollevò
dal supporto del leggio la lastra di vetro in cui era stato preservato il testo
che aveva appena letto. Uno dei suoi attendenti, un frate minore, si mosse per
impedirgli lo sforzo, ma il vecchio reverendo s’accigliò, aggrottando la fronte
rugosa come un’accavallarsi di cumulonembi pronti alla tempesta, e facendo un
singolo cenno di diniego col capo. Il fraticello si ritrasse rispettosamente, facendo
passare il suo superiore, che scese gli scalini con quella stanca maestà che
hanno solo i vecchi leoni sdentati e i vecchi monaci che hanno speso anni in un
paesino di montagna il cui nome faceva ancora ridere a crepapelle la gente a
valle.
Avanzò verso il centro
della sala. Ai lati c’erano i Precettori, gli altri Reverendi Difensori, i
Magistri Minori e Maggiori di Pancrazio e Pugilato, i monaci che coltivavano
l’orto, quelli che cucinavano e quelli che pulivano le stalle, tutti i monaci,
minori, maggiori, anziani e novizi. Mentre procedeva, teneva all’altezza del
petto, vicino al loto ricamato dell’ordine, la pagina incapsulata in vetro,
girandosi ogni due passi verso entrambe le file per mostrare la reliquia. Poi,
voltosi di nuovo verso il leggio, e verso l’icona dietro di esso, alzava la
lastra sopra il capo, aspettando la risposta di rito del coro, che mormorava il
breve inno a Eos per poi dissolversi in un mormorio.
L’incedere di Padre
Paolus era lento, infinitamente lento, seccante. La sala comune non era così
grande, ma lui si impegnava a rendere la cerimonia il più lenta e tediosa
possibile, persino per arrivare ad una dozzina di passi di distanza. I pochi
monaci che venivano sorpresi con le dita nel naso o a sbadigliare con più di un
paio di incisivi visibili non erano puniti in alcun modo, in quanto
l’incontrare lo sguardo di quel vegliardo cisposo era sufficiente a farli
inabissare nella silenziosa vergogna tipica dei fraticelli novizi, in attesa
della loro futura penitenza. La memoria di Paolus era mortalmente lunga ed
inossidabile.
Forse dire che regnasse
il silenzio era un po’ eccessivo. I frati più anziani, almeno settantenni,
rispettavano la regola in modo preciso, ma gli adepti più giovani, almeno
trentenni, che erano scampati al corruccio di Paolus, mormoravano qui e lì
qualche commento a caldo sul contenuto della pagina del vecchio libro bruciato
dell’archivio interno, scambiandosi pareri sul fatto che, dopotutto, era tutto
lì, solo una pagina, niente di più, troppo poco per fare qualsiasi cosa.
Ovviamente mantenevano un tono di voce basso, molto basso, perché se per un
dito nel naso Padre Paolus si limitava ad un’occhiataccia e un pasto saltato,
per parole come quelle in riferimento all’archivio interno, si poteva rischiare
di saltare il pasto per tutta la settimana, o peggio. Le punizioni corporali
erano appena dietro l’angolo, e i Maestri di Pancrazio amavano eseguirle con
fantasia tutt’altro che santa.
Ma neppure Paolus poteva
impedire alla popolazione del monastero di commentare freneticamente la
presenza dell’ospite che aspettava fuori dalla sala.
Non capitava tutti i
giorni che una donna si presentasse alle porte del piccolo rifugio di sapere
arroccato fra le montagne ai confini fra Glideria ed Eosmeria, e men che mai,
vestendo abiti maschili. La notizia, ancor prima dell’effettiva comparsa, aveva
precipitato i monaci più giovani in una tumultuosa curiosità che li aveva
attratti alle finestre come falene alle lucerne. Poi era stata convocata
l’assemblea generale in sala comune, e i Reverendi Difensori avevano iniziato
la cerimonia. Quello che molti avevano supposto (e a ragione), era che uno dei
libri più importanti, che era rimasto danneggiato nell’incendio del 98, era
stato finalmente approvato per la Riscrittura.
E la Riscrittura
implicava un pellegrinaggio.
“Chi manca?” sibilarono
dei ragazzi delle ultime file. Mentre nessuno dei vecchi guardava, uno allungò
il collo a destra e a manca, scrutando nella penombra della sala, sperando
invano di individuare chi fosse stato scelto per il compito di uscire nel mondo
sconvolto dalla guerra e dall’eresia. Chiunque in quel piccolo angolo di mondo
arroccato fra mura, tomi e polvere avrebbe venduto il proprio confratello
all’Inquisizione per un’occasione del genere.
“Silenzio!” tuonò Padre
Paolus in direzione della fila più audace. “Il prossimo che parla sarà lasciato
a meditare nelle celle di contrizione per una settimana!”
Il gruppo di fraticelli loquaci
si irrigidì come se fosse stato immerso in acqua fredda. Con stoiche facce di
bronzo, guardarono tutti dritto davanti a sé, impettiti e silenziosi, cercando
di far valere i loro tre decenni di vita vissuta contro la schiacciante
presenza del punitivo superiore ottuagenario. Non appena l’accigliato frate
ebbe distolto lo sguardo, insicuro dei colpevoli ma fiducioso che come sempre una
punizione sommaria sarebbe stata impartita, questi ricominciarono a far
saettare gli sguardi attraverso la sala illuminata solo dalla luce delle
candele.
Ad un tratto Paolus alzò un
dito, magro e terribile, verso uno dei pochi monaci davvero giovani. Era alto,
la fronte abbastanza larga, e abbastanza più vecchio dei coetanei. Aveva già le
profonde occhiaie di un lettore avido preda di anni di letture in biblioteche
immerse nel silenzio e nella penombra.
Metà dei monaci
trentenni, vigorosi e ansiosi di avventure, si volse, come un sol uomo, a
guardare il loro compare di dieci anni più giovane. Non c’erano dubbi, Paolus aveva
scelto proprio l’orfano.
“Fratello Lutheos” pronunciò
questi con voce stentorea.
A quel punto neppure la
volontà di Paolus poté trattenere il chiacchiericcio che, dapprima soffuso, era
improvvisamente esploso in tutta la parte bassa della sala. I novizi ormai
parlavano a voce alta senza più curarsi delle parole di divieto del padre
superiore, che erano ormai inudibili nel frastuono. Padre Paolus cercò
ugualmente di farsi sentire per qualche minuto, ma poi ci rinunciò e decise di
attendere che il chiasso si placasse, segnandosi a mente i volti e i nomi dei
monaci che facevano più baccano, per poterli seviziare più tardi. Dopo averli
mandati tutti a mente nel giro di una dozzina di secondi, non celò neppure la
grinza soddisfatta che gli era comparsa sul suo volto arcigno. Nel frattempo il
silenzio aveva ripreso il possesso della sala e Paolus ne approfittò per
chiamare una seconda volta il ragazzo, già turbato la prima volta e ancora più
sconvolto la seconda.
“Fratello Lutheos” ripetè calmo. “Sei stato scelto per questa Riscrittura. Hai udito il testo. Accetti il tuo compito?”
“Fratello Lutheos” ripetè calmo. “Sei stato scelto per questa Riscrittura. Hai udito il testo. Accetti il tuo compito?”
Lutheos esitò.
La porta della sala
comune si aprì. I monaci uscirono in modo ordinato, tornando ognuno alle
proprie faccende. Molti si girarono verso Alison, facendo attenzione a non
destare troppo l’attenzione della donna in armatura seduta in attesa sulla
lunga panca in legno dell’atrio all’ingresso del monastero. Tuttavia, la loro
discrezione, affinata da anni di silenzio, era sprecata, perché Alison si era
tolta uno dei guanti d’arme e stava rivolgendo tutta la sua attenzione
all’esplorazione della propria cavità nasale.
Ben presto il pacato
fiume di devoti, studiosi e novizi si diradò, e sulla soglia comparvero Padre
Paolus, due monaci di mezza età che probabilmente pregavano tirando testate
alle pietre, tanto butterata era la loro faccia, e quello che sembrava un novizio
di circa vent’anni portati male, asciutto, non troppo magro ma con due occhiaie
così. Aveva corti capelli appena ritti sulla testa ancora libera dalla tonsura,
ed era bianco come un cencio. Teneva in braccio un foglio di pergamena
bruciacchiata pressato fra due placche di vetro saldato, e aveva l’aria che
quell’affare pesasse molto, ma molto di più dell’effettivo peso.
Il singolare quartetto
avanzò in direzione di Alison, che stava ancora scaccolandosi amenamente,
quando furono finalmente davanti a lei. Per qualche secondo rimase lì, seduta
con la schiena appoggiata allo schienale, poi le tornarono in mente tutte
quelle questioni di etichetta che Padre Paolus le aveva menzionato al suo
arrivo al monastero. Non riuscendo a ricordarsene nessuna, si alzò, avanzò
verso il giovane monaco e gli tese la mano nuda. Non si offenderanno per un gesto del genere, pensò.
Lutheos rimase interdetto
per un attimo, mentre al suo fianco Paolus diventava paonazzo in due secondi
netti, poi tese la mano a sua volta, anche se nel frattempo Alison si era resa
conto di quale mano aveva teso e l’aveva ritratta di scatto, per presentare la
mano inguantata di cuoio e metallo.
“Salve” disse la
mercenaria. “Sono Alison.”
“Alison…?” disse Lutheos,
perplesso. “Non avete un cognome?”
“Alison e basta” replicò
secca lei. “Mai avuto. E tu saresti…?”
“Fratello Lutheos,
dell’Ordine del Loto, al vostro servizio” disse servizievole. “Sono cresciuto
qui presso i monaci, quindi ho preso subito i voti e un nome di beato canonico
e quindi neanch’io ho un cognome.”
“E chi l’ha chiesto?”
borbottò Alison riportando lo sguardo su Paolus, che stava consumando a ritmo
rapidissimo gli ultimi anni della sua vita nel trattenersi dal sottolineare
tutte quelle infrazioni del protocollo che ovviamente non poteva punire. “Padre
Paolus, è questo il monaco che devo scortare?”
“Ciò è esatto” disse
Paolus infastidito. “Fratello Lutheos è stato scelto per la Riscrittura, che
consiste in una ricerca sul campo delle fonti storiografiche utilizzate da un
autore la cui opera è stata gravemente danneggiata.”
“Sì, sì” disse Alison
annuendo come se gliene importasse. Il suo lavoro , ma per poter portare a casa
la paga doveva comunque assecondare il committente, almeno fino a quando non
usciva dal suo campo visivo ed uditivo. “Insomma, io dovrei semplicemente fare
da balia allo storico in erba, no?”
Lutheos la guardò
infastidito. “Con tutto il dovuto rispetto, ho letto molti trattati di storia e
conosco a menadito alcuni dei lavori di storiografia più influenti del secolo
scorso…”
“Lutheos, è abbastanza”
disse Paolus. Si volse di lato, indicando la via per l’ufficio. “Parleremo in
privato.”
Alison, dato l’ingombro
della sua armatura, non si sedette sulle comode poltrone dell’ufficio del padre
superiore. Lutheos, per rispetto di Padre Paolus, restò in piedi affianco a
lei, con la lastra di vetro ancora in mano.
Paolus si accomodò invece
dietro la scrivania, prendendo un libretto di appunti legati da uno spago e
porgendolo a Lutheos senza neppure alzarsi. I due nerboruti e butterati monaci
rimasero come due colonne in saio ai lati di Paolus, silenti.
“Questo quaderno contiene
tutti i frammenti ricopiati dalle pagine successive del libro” disse il
vecchio. “Quasi ogni pagina è stata distrutta, i pezzi leggibili recuperati
sono davvero pochi e molto frammentari. Alcuni, limitati ad una sola frase.
Altri ad una sola parola. Certe volte non li abbiamo nemmeno trascritti.”
Lutheos prese il libello
e lo aggiunse al prezioso carico, maneggiando il tutto come se fosse bastato un
soffio d’aria a distruggere il vetro e la pagina. Paolus lo notò e sospirò.
“Non vedi preoccuparti
per il vetro, l’abbiamo commissionato ad un mastro vetraio” disse fiero.
“Chiaro come il cristallo, difficilissimo da rompere. Spesso, resistente e ben
saldato ai bordi. Inutile dire che costa una fortuna, quindi non perderlo.
Tienilo sempre a vista.”
Le parole di Paolus non
migliorarono lo spirito di Lutheos, o la sua eccessiva cautela nel tenere la
reliquia. Alison, comunque, pungolata dalle parole di Paolus in merito ai costi,
cercò di portare la discussione sull’argomento che le stava più a cuore: il suo
compenso.
“Dunque è una missione di
una certa importanza, visto che state impiegando tante risorse”, disse,
sfoggiando un sorrisetto. “Quindi, discutiamo di quello che non è stato
chiarito quando ho trovato l’annuncio giù in città: quanto sarò pagata per il
mio lavoro di guardia del corpo? Il mondo là fuori è un posto pericoloso di
questi tempi, e sembra che vi serva molto la Riscrittura di questo libro-”
“Il vostro compenso sarà calcolato
su una base di mille talleri d’oro, che vi saranno consegnate come premio e
rimborso alla fine del viaggio. Ogni danno attribuibile a voi da parte di
fratello Lutheos abbasserà il premio di conseguenza.” Gli occhi di Padre Paolus
erano due fessure impenetrabili. “In seguito alla Riscrittura, riceverete parte
degli introiti della vendita delle copie del libro, dal due al cinque per
cento, diciamo, oltre a figurare come assistente sul campo dell’autore.”
“Venderete il libro?”
chiese Alison.
“Solo ai facoltosi
richiedenti” disse Paolus, marcando la parola facoltosi. “Noi preserviamo la
conoscenza, non la distribuiamo al primo che passa.”
“Beh, mille talleri sono
una cifra sostanziosa” disse Alison. “Accetto il lavoro. Tanto si tratta di
difendere il vostro fraticello amanuense fino alle Voragini Rosse, giusto? Nel
giro di un mesetto dovremmo raggiungerle, documentare qualsiasi cosa vi serva,
e tornare-”
“Non esattamente” disse
Paolus con parole dure, quasi spigolose. “Fosse stato solo questo, avremmo
parlato di appena cento, forse centoventi talleri. O forse avremmo mandato
direttamente qualcuno di più esperto del buon Lutheos a cavallo di un mulo,
senza scorta. Qui si parla di riscrivere un libro che narrava gli ultimi
ottant’anni di storia, cercando le fonti più attendibili e ripercorrendo le
tracce dell’autore originale, fino ai confini del mondo. È un pellegrinaggio, e
quindi durerà molti mesi… forse anni.
Lustri, persino.”
Stavolta fu il turno di
Alison di serrare gli occhi fino a lasciare visibili solo due capocchie di
spillo nere e furenti. “Cosa? Mi era stato detto di un incarico a medio-lungo
termine, ma questo-”
“Sia ragionevole” disse
Paolus con l’aria di chi apprezza la frustrazione altrui come un raro liquore.
“Il rimborso di mille talleri copre ampiamente la spedizione, supponendo che
non vi cacciate nei guai più di quanto sia possibile girando per paesi in
guerra, e contando anche gli introiti per le vendite dovreste essere in grado
di vivere il resto della vostra vita senza sguainare una spada per soldi.
Potreste trovarvi una buona casetta in campagna, un marito e sfornare tanti
bambini sani e forti…”
“Non c’è bisogno di
infiocchettare la verità, so fare i miei conti” disse Alison astiosa. “Non sono
affari vostri quello che ci farò con i soldi, ma mille talleri più bonus mi
vanno bene; accetterò il lavoro comunque. Ma che questa sia l’unica sorpresa, o
dovrete riscrivere più di un solo libro.”
“Saggia decisione” disse
Paolus, neppure minimamente intimorito, distogliendo lo sguardo dalla
mercenaria e frugando nei cassetti alla ricerca di pergamene per stilare il
contratto. “Anche perché non avremmo molto altro denaro comunque. I fondi della
chiesa per questa Riscrittura sono arrivati solo di recente, e sono comunque
abbastanza ristretti. Abbiamo già speso gran parte della somma fornitaci dal
Ministero Ecclesiastico per la Preservazione dei Beni Culturali delle Comunità
Monastiche per riparare i danni dell’incendio del 1598.
“Ho notato.” Alison fece
spaziare lo sguardo attraverso l’ufficio di Paolus. Le poltrone in feltro, la
scrivania di mogano rosso delle colline di Corolla, le lampade intarsiate in
ottone ed electrum di chiara fabbricazione glideriana, e la libreria opera di
un mastro falegname dell’ovest. La mercenaria non si intendeva d’arte, ma la
roba che aveva in ufficio quel vecchio bavoso non era decisamente artigianato
locale a basso prezzo. Probabilmente avevano pensato solo all’ultimo momento di
spendere del denaro per quello che effettivamente aveva portato i soldi al
monastero, e cioè i libri. Alison si domandò perché i monaci vivessero a
stretto contatto con tutta quella tediosa letteratura se non piaceva neppure a
loro.
Presto si sarebbe resa
conto che il suo compagno di viaggio era invece proprio il topo di biblioteca
che si era inizialmente aspettata di incontrare, ma con una sostanziale
differenza.
Dopo una veloce firma con
la sua incerta e mai troppo praticata calligrafia, Alison fu ufficialmente
ingaggiata. Le fu fornita una lettera di consegna uguale a quella data a
Lutheos, anche se fu comunque chiarito ad entrambi che il potere di quel
documento di aprire porte era abbastanza limitato. Per ottenere accesso ad
archivi statali importanti si sarebbero dovuti arrangiare con la burocrazia
locale, senza alcun aiuto. Alison sospirò rumorosamente, mentre Lutheos si
affrettò a rassicurarla, promettendo di occuparsi del necessario.
I due furono formalmente
benedetti dal Padre Superiore, quindi scortati fuori dai due monaci dalla
faccia di pietra, che a quanto aveva detto Paolus, erano due Maestri Minori di
Pugilato. Alison si domandò chi avesse bisogno di pugilato in un monastero di
amanuensi, e quasi immediatamente le venne voglia di sfidare i due uomini ad
una bella scazzottata, ma preferì star zitta. Meglio non far arrabbiare i
committenti.
I monaci condussero i due
alle stalle, dove Alison riprese il suo cavallo, mentre a Lutheos fu affidato
un mulo che a giudicare dalla stazza e dalle ossa in vista doveva mangiare
persino di meno dei monaci nelle celle di contrizione. Lutheos storse la bocca,
ma stette in silenzio. Appoggiò una mano sul collo del mulo e sperò che
l’animale non gli desse problemi durante il viaggio o non gli morisse sotto i
piedi.
“Molto bene, qui ci
separiamo, fratello Lutheos” disse uno dei due maestri in direzione del giovane
amanuense. “Speriamo che il tuo difensore sia più abituato di te al mondo
esterno e che ti difenda egregiamente.”
“Grazie, Maestro Obbius”
disse a capo chino e con aria mesta il monaco ventenne. Alison lo prese per un
braccio e lo tirò lievemente per dirgli di muoversi, poi scoccò un’occhiata al
monaco più vecchio. “Sono perfettamente capace di badare al ragazzo, senza
contare che lui ha quasi la mia età e quindi dovrebbe essere capace di badare a
se stesso. Smettetela di demoralizzarlo.”
“Non parlare di cose che
non sai, donna” disse l’altro monaco. “L’unico motivo per cui abbiamo scelto
lui e non altri più esperti è che Lutheos è un orfano, un figlio adottivo di
questa comunità monastica.”
“Bel modo di trattare i
figli adottivi, allora” disse Alison, sputando a terra. “Sono contenta di non
essermi fatta suora, allora. Meglio fendere la spada che sparare stronzate da
sopra i libri.”
“Piano con le parole,
mercenaria” disse Obbius. “Non è una questione di apprezzamento delle qualità
di fratello Lutheos. In tutti gli anni vissuti con noi non ha mai eccelso
particolarmente in nulla, quindi siamo solo realisti riguardo le sue capacità.
È una questione economica. Gli unici altri monaci giovani sono tutti secondo o
terzogeniti di famiglie nobili minori. Se avessimo scelto uno di loro, ci
saremmo ritrovati davanti le loro famiglie a cercare di strapparci introiti
maggiori per la parte dei loro figli nel lavoro di Riscrittura. Invece, con
Lutheos, ogni introito relativo all’autore andrà alla comunità. Ci guadagneranno
tutti.”
“Piantatela di cacciar
balle” tagliò corto Alison. “Siete solo vecchi tirchi come la maggior parte
degli ecclesiasti là fuori. Avete solo meno soldi e meno potere sulla gente
comune. Ma tant’è. Il mio compenso lo avrò, e voi avrete il vostro. Non sta a
me fare la predica ai frati.”
“Stai facendo camminare
la tua lingua sul filo dell’eresia, donna impudente” disse l’altro maestro.
“Farai bene a chiudere la bocca prima che ci pensiamo noi.”
“Sì, sì, come dite voi”
disse Alison dando loro le spalle e allontanandosi con le cavalcature e Lutheos al seguito. Li avrebbe picchiati con
calma alla fine del lavoro. Certa gente non cambiava dopo un mese o un anno, e
lei sarebbe stata lieta di ritrovare quella stessa spocchia e pestarla a
sangue.
Fuori dall’edificio,
lungo il percorso del piccolo giardino ciottoloso che conduceva alla strada che
scendeva dalla montagna, li attendeva un gruppetto di monaci di circa
trent’anni che avevano l’aria di aver saltato l’ora di preghiera solo per motteggiare
il ragazzo in partenza, mossi più dall’invidia che da effettivo odio. Le parole
che sibilarono ai due mentre conducevano i loro destrieri a piedi, però, furono
ugualmente taglienti:
“Buon viaggio, orfano!”
“Finalmente te ne vai,
eh?”
“La mia famiglia te la
farà pagare, orfano!”
“Ti hanno trovato una
badante, eh?”
“Povera mercenaria, con
Lutheos resterà pura e vergine! Con me, invece-”
“Per Eos, inizio ad avere
a noia questo posto” mugugnò fra i denti Alison, e si voltò verso uno dei
monaci più vicini e più impertinenti, sguainando nel frattempo la spada.
“Tornate a scrivere i vostri libri, fraticelli, o mi assicurerò che il vostro
voto di castità sia impossibile da spezzare trasformandovi tutti in eunuchi.”
I frati indietreggiarono
di mezzo passo. “Non ci fai paura, donna” disse un monaco di trent’anni, con la
faccia da rospo. “Qui al monastero ci insegnano ad avere la meglio sui nemici
armati come te.”
“Beh, ho visto i vostri
pugili con le loro facce quadrate” disse Alison, non troppo impressionata. “Già
temo una testata delle loro. Beh, avanti, sto aspettando. Chi vuole mostrarmi
le vostre abili mosse per primo?”
Il fraticello
impertinente guardò i suoi compagni per supporto morale, ma non ne trovò
neppure un’oncia, visto che i suoi compari erano indietreggiati con passo
felpato e veloce. Si rivolse verso Alison, alzò le mani, e cercò di scattare
con i palmi tesi per afferrare le due facce della lama tesa davanti a lui,
eseguendo una mossa rotatoria volta a disarmare molto comune al monastero.
Prima che potesse attuarla, la lama sfuggì di lato sotto di lui, mentre
improvvisamente lo stivale di Alison entrava nel suo campo visivo. Il monaco
ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo prima che un pugno guantato di ferro
e cuoio gli atterrasse fragorosamente sul grugno. Il pover’uomo cadde indietro,
mugolando per il naso chiaramente rotto.
Alison lo guardò
dall’alto in basso, togliendosi una ciocca dei lunghi capelli biondo cenere che
gli era ricaduta sul volto. “Hm. Come pensavo.”
Lei e Lutheos
proseguirono. Nessuno li inseguì.
“Ho raccolto della legna”
disse Lutheos. Sottobraccio teneva una catasta di legno sufficiente a bruciare
un intero sabba stregonesco, a tracolla portava una borsa a tracolla in pelle
che aveva confezionato durante il precedente giorno di viaggio, e sul volto
aveva un’espressione entusiastica.
Alison lo guardò sorpresa
da sopra il cumulo di pietre su cui era seduta. “Sollevi parecchio. Pensavo
fossi più gracilino.”
“Non tutti i monaci
praticano le arti marziali per avere corpi come quelli del Maestro Obbius e del
Maestro Firmus. E comunque io non sono così forte, davvero. Sono solo molto
allenato a sopportare le fatiche fisiche, sono molto più facili da ignorare di
quelle psicologiche.”
“Psico-che?” sillabò
Alison, poi ci rinunciò. Non era tipa da parole troppo complesse. “Beh, bella
borsa che hai lì. Non ti credevo neppure così bravo con le pelli. Vuoi
occuparti tu di scuoiare il coniglio che ho preso?”
“Se la povera bestiola è
ormai morta, d’accordo” rispose lui sconsolato, e lei gli passò la selvaggina,
che lui spellò con pochi colpi e un paio di strattoni nei punti giusti.
Riconsegnò la massa di carne e tendini ad Alison, che procedette a cucinare.
Presto si ritrovarono a masticare avidamente la cena, nel sommesso concerto
degli animali notturni delle foreste di conifere.
“Io ci avrei messo del
rosmarino” suggerì Lutheos. Alison lo guardò storto. “Ti sembro una che porta
con sé il rosmarino?”
“N-no” disse Lutheos,
imbarazzato. “Scusatemi.”
“Oh, piantala e dammi del
tu, hai praticamente la mia età.” Alison continuò a mangiare per un po’ in
silenzio, quindi guardò nuovamente Lutheos. “Perché insegnano a lottare e a
fare a pugni a dei monaci? Capiscimi, sono d’accordo, chiunque dovrebbe saper
fare a pugni nella propria vita, specialmente gente che vive solo fra i libri.
Ma perché?”
“Il nostro monastero
custodisce numerosi libri molto antichi, è un ricettacolo di conoscenza di
secoli della cultura eosmeriana e straniera” spiegò Lutheos nelle pause fra un
boccone e l’altro. “Siamo molto fieri della gamma di bestiari e di trattati
naturalistici e storici che abbiamo sulla formazione del Santo Stato di Eosmeria.”
“Come se ci fosse da
esserne fieri” bofonchiò Alison.
“Forse non c’è da essere
fieri di quello che è stato fatto dall’ecclesiarchia, ma non c’è nulla di male
nell’essere fieri di aver trascritto la storia.” Lutheos ora parlava con più
fervore. “Neanch’io condivido quello che fa la maggior parte degli uomini di
chiesa fra un sermone e l’altro, ma credo che la nostra religione sia vera e
giusta. E credo nel sapere che tramandiamo.”
Alison sollevò appena le
sopracciglia. “Sei proprio un topo di biblioteca dagli alti ideali, eh?
Comunque non hai ancora spiegato il perché delle arti marziali.”
“Si spiega da solo” disse
Lutheos. “Per proteggere la conoscenza, abbiamo adottato lo strumento delle
arti a mani nude: lotta, pugilato, pancrazio, e così via. Sono letali solo se
necessario, e usate solo per soggiogare i violenti che danneggiano la cultura o
vogliono trafugare i libri. Si presuppone che sia uno stile di combattimento
pacifico.”
“Dillo a quei tuoi due
maestri e ai tuoi confratelli” lo schernì lei. “Sembravano ansiosi di
soggiogarmi, eccome. Pacifico un gran paio di palle.”
Lutheos non raccolse la
battuta. “È vero. Ma io sono comunque uno studente delle arti marziali per
questo motivo, per quanto sembri ossimorico-”
“Oh, senti, parla come
mangi” sbottò Alison. “Ho già lasciato correre ricettaculo di conoscenza e la
mamma di bestiari e ora te ne esci con ossiqualcosa. Davvero, piantala. Non ho
mai studiato molto la letteratura, le scuole cittadine insegnano giusto a leggere
e scrivere e a far di conto, queste parole non le ho mai sentite e non le
capisco. Quindi, se vuoi che andiamo d’accordo, vedi di essere più
comprensibile quando parliamo.”
Lutheos annuì e tacque,
sentendosi inadatto alla situazione.
“Alison?” disse
titubante. “Posso chiedervi… chiederti… una cosa?”
“Parla” disse lei
tagliente.
“Possiamo fare un po’ di
pratica di combattimento?”
Alison lo guardò
perplessa. “Sembra che tutti i frati cerchino di fare a botte con me” borbottò
cupa, quindi si alzò, mise mano alla spada e guardò Lutheos con aria
preoccupata. “Non fa bene fare esercizio subito dopo mangiato, lo sai?”
“Starò bene” garantì
Lutheos, senza troppa convinzione. Si alzò da terra, quindi assunse una
posizione fluida, non troppo pronunciata, con le mani alzate di poco sopra
l’altezza della vita, la schiena dritta, le gambe appena allargate, con il
rumore dei calzari che strisciavano fra gli aghi di pino.
“Devo attaccarti io?”
chiese lei, rendendosi conto che lui non accennava a caricarla.
“Il mio è uno stile di
combattimento pacifico-” ripeté Lutheos.
“Sì, sì, ho capito” disse
Alison, e scattò in avanti, con la spada levata, pregando che il ragazzo
sapesse quello che faceva.
Lutheos eseguì tutto con
tale calma da sembrare lentissimo, ma riuscì ad eguagliare la velocità di
Alison come se lei avesse avuto dei pesi legati alle braccia. Eseguì la stessa
manovra del suo confratello, solo avanzando prima di lei e afferrando l’arma
vicino all’elsa con uno strattone veloce che fece volare il suo gomito
pericolosamente vicino al mento di Alison. Non riuscì a strapparle la spada per
poco, ma si ritrasse con ottimi riflessi prima che lei lo scalciasse via.
“Ehi, non eri male!”
disse lei. “meglio di quel tuo confratello all’uscita dal monastero,
perlomeno.”
Lui si guardò le mani,
poi Alison, poi di nuovo lei. “Lo crede… lo credi davvero?”
Alison annuì pensierosa.
“Vi insegnano solo questa roba per chi attacca con una spada?”
“No, anche tecniche di
attacco, ma non sono prudenti” disse lui titubante. “Io ho sempre il timore di
far male ai miei compagni di pratica, quindi non sono molto sicuro di saperle
usare.”
Alison fiutò qualcosa
d’interessante. Il sangue le ribolliva. “Dai, fammene vedere qualcuna.”
“Preferirei di no” disse
Lutheos scuotendo vigorosamente la testa. “Non è una buona idea, davvero.”
“Se sei scarso come
dicevano i tuoi insegnanti, dovrei cavarmela, giusto?” lo stuzzicò lei, facendo
roteare la spada. “O devo darti qualche incentivo?”
Lei la guardò perplesso e
preoccupato, ma non disse nulla.
“Devo minacciarti di
distruggere quella maledetta pagina sottovetro che ti porti appresso?”
“Non oseresti.”
“Oserei. Hai letto e
riletto quella pagina da quando siamo partiti e ti ho sentito ripeterla a
memoria e segnartela su un quadernino” ghignò lei con una mano verso la
bisaccia di Lutheos appoggiata su una pietra. “L’informazione l’hai salvata. La
reliquia, in fondo, non ti serve. Potrei venderla, chissà…”
Lutheos non ebbe bisogno
di altri incentivi. Fece un passo avanti per fermarla, ma lei roteò indietro
per tentare un attacco a sorpresa. Lui la accolse in posizione.
Con un passo di lato
schivò il fendente dall’alto che arrivava da davanti, quindi colpì dal basso il
braccio di lei, poco sopra il gomito, e con un secondo colpo sul fianco,
coperto solo da una cotta di maglia. La spinta fece barcollare Alison qualche
passo lontano da Lutheos, finendo per dargli le spalle. Prima che potesse
girarsi, ricevette un colpo alla nuca, accompagnato da un ferreo “non si
bruciano i libri”. Le parve un colpo leggerissimo, appena un buffetto, ma si
rese conto come in un sogno di aver rilassato le braccia, lasciandole penzolare
inerti, tenendo a malapena la spada fra le dita. L’adrenalina che aveva in
corpo sembrava evaporata. Prima che potesse riuscire a rialzare l’arma,
qualcosa turbinò dietro di lei colpendola un numero imprecisato di volte nello
stesso momento e in punti diversi del corpo. Si ritrovò boccheggiante a terra,
con l’odore pungente degli aghi di pino, terriccio e sassi dentro le narici
affamate d’aria. Si rialzò tastando in giro alla ricerca dell’elsa dell’arma,
ma non la trovò. Alzò lo sguardo su Lutheos, che la teneva in mano, fuori dalla
sua portata.
“Prometti di non
danneggiare nessun libro d’ora in poi” le intimò.
Lei lo guardò come se
fosse stata l’ultima cosa di cui preoccuparsi al momento.
“Prometti” ripeté lui.
Lei roteò gli occhi,
sbuffò, lo guardò lasciando intendere seriamente?
e lo accontentò.
Lui le riconsegnò la
spada, che lei riprese con un burbero strattone. Si ravvivò i capelli sporchi
di pinoli e lo guardò malissimo.
“Che c’è?” disse lui.
“E sono tutti così bravi
al tuo monastero?” chiese.
Lui sembrò pensarci su.
“Forse no.”
“E allora come mai tutti
ti considerano così incapace?”
“Forse è perché, siccome
ero più piccolo degli altri, mi allenavo con un vecchio maestro, che è morto
sei anni fa, e tutti pensavano che nel frattempo mi fossi rammollito. Lo
pensavo anche io.”
“Mi dispiace per il tuo
maestro. Era bravo?”
“Era il migliore, a detta
di tutti.”
“Allora si spiegano due
cose.”
“Cosa?”“Il fatto che tu mi abbia messo a tappeto e che nonostante questo tu sia un imbecille.”